La crisi bosniaca scoppiata nel 1875 è il primo banco di prova internazionale dell’Italia unita, in qualità di nuovo soggetto nello scacchiere internazionale. Per di più tale banco di prova cade nel momento in cui si verifica l’avvicendamento alla guida del paese tra Destra e Sinistra.
L’argomento di per sé può apparire marginale se lo si guarda con gli occhi dei contemporanei, preoccupati maggiormente dalle vicende interne, ma è significativo per comprendere gli sforzi della diplomazia italiana al fine di far accettare alle potenze europee la presenza sullo scenario internazionale (un club veramente esclusivo) di un nuovo soggetto, il Regno d’Italia. Per ottenere ciò Roma deve presentarsi come elemento di stabilità, in considerazione del fatto che la guerra franco-prussiana ha ormai chiuso il periodo “rivoluzionario”.
Dal punto di vista internazionale, l’Italia deve inserirsi nel contesto dell’Europa bismarckiana, cioè di un’Europa dominata dalla Germania allo scopo di controllare il mantenimento dello status quo. Dal punto di vista interno, gli sforzi finanziari del Regno d’Italia per le guerre sostenute, i costi per l’armonizzazione dei vari stati pre-unitari, lo scenario economico ancora pre-industriale non consigliano una politica estera ardita. I problemi di politica interna, poi, sottraggono l’attenzione del governo dagli aspetti internazionali, non creando le condizioni per giungere all’elaborazione di una strategia ad hoc, che non sia solo lo scimmiottare la politica d’equilibrio di Emilio-Visconti Venosta.
Il significato dell’atteggiamento dell’Italia nei confronti dei Balcani nel 1875-1878 viene proposto come caso di studio della politica estera del Regno d’Italia, dopo la conquistata di Roma. La crisi bosniaca rappresenta un test particolarmente probante per il nuovo soggetto internazionale, perché è relativo a una zona geografica costante motivo di attrito tra le potenze europee fino al casus belli dell’attentato di Sarajevo e perché pone i governi italiani – soprattutto quelli di Sinistra – davanti al problema della gestione interna e internazionale della questione relativa alle terre irredente. Ne consegue un costante intrecciarsi di problematiche di politica estera ed interna, a cui segue l’adeguarsi – nolenti o volenti – a una politica di equilibrio come panacea per le problematiche di entrambi gli aspetti. Tale linea di condotta non deriva dalla convinzione di intraprendere una strada precisa quanto piuttosto dalla necessità di temporeggiare in attesa di tempi migliori: si tratta dell’estremo tentativo della corrente “piemontese” di difendersi dagli effetti centripeti esercitati dalla Germania di Bismarck.
Ma il dibattito all’interno della Sinistra tra filo-francesi e filo-prussiani non riguarda – in ultima analisi – i rapporti con la Germania, quanto quelli con l’Austria: infatti, dopo il 1866, Bismarck ha tutto l’interesse a volgere Vienna verso i Balcani senza però tenere in alcun conto la possibilità di offrire come compenso alternativo all’Italia Trento e Trieste. Ne deriva che entrare nel sistema bismarckiano per l’Italia significa trovarsi a supportare la politica di sicurezza nei Balcani della nemica storica senza trarne alcuna contropartita.
Ecco perché la politica di equilibrio iniziata da Emilio Visconti-Venosta e improntata al modello britannico (difficilmente replicabile da un paese cerniera tra più realtà) appare la via d’uscita migliore per un’Italia che si augura di poter superare la crisi balcanica senza grandi ripercussioni all’interno. E, invece, è proprio in quegli anni che il movimento dell’Italia irredenta si organizza e l’atteggiamento dei rappresentanti di Roma al congresso di Berlino dell’estate 1878 non farà altro che rinfocolare le proteste. La scelta di inviare il diplomatico Corti al consesso dominato dalla Germania e dalla Gran Bretagna è una mossa conciliante nei confronti del concerto europeo, ma la posizione filo-austriaca dell’ex-ambasciatore a Costantinopoli scatenerà le proteste interne e le critiche alla politica delle “mani nette”.
Costatato che l’Italia non è in grado di attuare una politica di equidistanza e al tempo stesso trarre vantaggi territoriali, dopo l’occupazione da parte dell’Austria della Bosnia-Erzegovina, a cui seguirà l’occupazione di Tunisi da parte della Francia, Roma s’interroga sull’opportunità di chiedere protezione alla Germania.