Il “banchetto cinese”

L’Italia fra le treaty powers
- Autore: Andrea Francioni
- Anno: 2004
- Formato: 17 x 24 cm.
- Pagine: 296 pp.
- ISBN: 88-7145-208-9
L’Italia fra le treaty powers
L’obiettivo di questo lavoro è ricostruire il ruolo svolto dall’Italia durante il processo di revisione dei trattati tra la Cina e le potenze scaturito dal Protocollo di Pechino del 7 settembre 1901. L’analisi è stata condotta in modo da collocare il negoziato sino-italiano da un lato nel contesto della storia dei rapporti tra i due paesi a partire dal primo trattato di amicizia, commercio e navigazione stipulato nel 1866 da Vittorio Arminjon; dall’altro nell’ambito del processo di revisione dei trattati nel suo complesso, così come fu impostato dall’Inghilterra nel 1902 e quale, più in generale, risultava dai nuovi equilibri di potenza determinatisi in Cina fra il 1895 e il 1905.
Le due prospettive hanno richiesto percorsi di ricerca diversi, ai quali non poteva restare estranea, tuttavia, l’attenzione per l’evoluzione della scena politica e sociale interna dell’impero Ch’ing a cavallo tra Ottocento e Novecento, evoluzione di cui, quando necessario, si è cercato di dare conto, fermo restando che il tema resta solo sullo sfondo di una ricerca eminentemente di storia politico-diplomatica.
L’argomento affrontato dà l’opportunità di riflettere sulle modalità di funzionamento del cosiddetto treaty system, inteso come il meccanismo messo a punto dalle potenze europee, dagli Stati Uniti d’America e dal Giappone per gestire i rapporti con la Cina nell’età dell’imperialismo. In questo senso si evidenzia in primo luogo il processo di lenta erosione delle prerogative sovrane cinesi in virtù del forzato riconoscimento agli stranieri di privilegi politici, commerciali, giuridici, diplomatici, il cui ambito di applicazione veniva automaticamente esteso ad ogni nuova stipulazione a tutte le treaty powers per effetto della clausola della nazione più favorita. Allo stesso tempo, la scelta del periodo consente di verificare l’efficacia del sistema nella sua fase matura, quando il numero delle potenze che avevano un trattato con la Cina era diventato così elevato, e i singoli interessi nazionali in campo così diversi, da indebolire la posizione di “primus inter pares” tradizionalmente goduta dell’Inghilterra.
L’occasione per la stesura di questo contributo è stata fornita dal rinvenimento presso l’Archivio di Stato di Siena di un corposo fascicolo contenente i documenti del negoziato intercorso nel 1906 tra l’Italia e la Cina per il rinnovo del vecchio trattato Arminjon. Di tali documenti gli studiosi avevano perdute le tracce e la questione era rimasta oscura a tutti coloro che, in qualche modo, vi si erano imbattuti 1. Ciò in ragione del fatto che il plenipotenziario designato dal governo di Roma, Cesare Nerazzini, a fine missione si limitò a rimettere al Ministero degli Esteri la consueta relazione sulle trattative, mentre conservò per sé i documenti utilizzati o elaborati dalla commissione italiana, documenti che, ordinati con cura dal diretto interessato, rifluirono nel suo archivio privato 2. Negli archivi pubblici rimase la relazione, peraltro collocata fra le carte personali del ministro dell’epoca, Tommaso Tittoni, e rimasta anch’essa finora inutilizzata.
Il fallito negoziato del 1906 rappresenta solo un episodio nella storia dei rapporti tra l’Italia liberale e la Cina imperiale, ma può essere collocato fra i momenti più significativi di quella vicenda, accanto alla stipula del primo trattato bilaterale nel 1866, alla sfortunata, e per certi versi grottesca, avventura di Sanmun, alla partecipazione italiana alla coalizione internazionale che prese le armi contro i Boxers nell’estate del 1900. Peraltro esso riveste un interesse che va oltre la storia delle relazioni tra i due paesi, rappresentando forse l’unica circostanza in cui l’Italia, parte integrante, anche se non sempre attiva, del treaty system, influì sul corso degli eventi in Cina, determinando la sospensione del processo di revisione dei trattati commerciali innescato dall’art. XI del Protocollo di Pechino, processo che era stato preteso dalle potenze vincitrici, ma sul quale anche il governo imperiale faceva assegnamento per sostenere il programma di limitata modernizzazione concepito dal movimento di riforma allora in auge.
A conclusione del lavoro, desidero ringraziare tutti coloro che, a vario titolo, mi hanno aiutato a portarlo a termine: non sono stati pochi fin dall’inizio e sono diventati sempre di più via via che si è esteso l’ambito anche geografico della ricerca. Sono grato in particolare all’avvocato Claudio Maria Mancini, che mi ha consentito di accedere alle carte personali di Vittorio Arminjon, da lui rintracciate presso gli eredi a Charbonnières les Bains (Lione) e ora conservate in copia anche nell’Archivio Luigi Mancini di Roma. Si tratta di materiale inedito, che mi ha permesso di chiarire alcuni passaggi non secondari delle trattative italo-cinesi del 1866 3.
Un debito di gratitudine ho contratto poi nei confronti dell’ammiraglio Vincenzo Martines, che mi ha aiutato a reperire presso l’Archivio del l’Ufficio Storico della Marina Militare i fogli matricolari di alcuni dei personaggi citati.
Ovvio, ma non superfluo, ringraziare in questa sede il personale dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, dell’Archivio Centrale dello Stato, dell’Archivio di Stato di Siena, del Public Record Office e della biblioteca della School of Oriental and African Studies di Londra.
Al professor Giovanni Buccianti, che mi ha costantemente sostenuto nella ricerca e ha letto il dattiloscritto del saggio, devo la riconoscenza dell’allievo al maestro.