Studio su Caccia Tragica
(Giuseppe De Santis, 1947)
- Autore: Guglielmo Moneti (presentazione di Lino Miccichè)
- Anno: 2004
- Formato: 12,5 x 20,5 cm.
- Pagine: 116 pp., ill
- ISBN: 88-7145-202-X
(Giuseppe De Santis, 1947)
Da anni sostengo, pratico e teorizzo, e anche recentemente ho ribadito*, che la più attenta observatio di un cinetesto – l’operazione che segue l’iniziale constitutio textus fino a farne quasi parte – passa attraverso la disponibilità di un’ampia descrittiva testuale che ne metta in luce e ne denomini la struttura e le sue scansioni: i piani, le sottosequenze, le sequenze, le macrosequenze (i “capitoli”), i diversi modi delle relative interpunzioni (stacchi, dissolvenze, doppie dissolvenze, ecc.) nonché il succedersi in colonna del sonoro (dialoghi, musica, rumori, ecc.). Questa operazione, lungi dall’essere meramente denominativa o, al più tassonomica (benché sia anche questo, e molto utilmente), implica già in sé un’attenta observatio della struttura testuale e delle leggi che ne determinano l’assetto; ed è a partire da essa che si avviano le prime congetture esegetiche dell’analista. Molte intuizioni critiche avute nell’analizzare le opere degli autori che più amo – Antonioni o Visconti, Buñuel o Anghelopoulos – mi sono venute in mente dovendo strutturalmente descrivere quei testi. Valga per tutte l’“inquadratura ideologica”, il panorama fisso di Cecafumo, ripetuta sei volte in Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini: è appunto constatando questa vistosa iterazione, e la scarsa connessione diegetica che la caratterizza, che ho dovuto pormi, e risolvere, il problema del suo senso, della sua funzione. Similmente, è così che, fin dall’apertura della sua analisi di Caccia tragica, Guglielmo Moneti può mettere in giusta luce i procedimenti del mascheramento e smascheramento che aprono quello che egli chiama l’orizzonte metadiscorsivo del film, identificare i tempi agitati del presente e quelli incubici di un passato non ancora del tutto trascorso, nonché identificare le alternanze e le convergenze del dualismo rappresentato. Naturalmente, il gesto analitico – in ispecie se abbia finalità storiografiche e non soltanto recensive, se punti insomma al giudizio storico/estetico e non soltanto estetico – deve essere poi immerso nella Storia: non solo quella in cui il suo particolare discorso si inserisce negli altri dell’autore che precedono e seguono (il cinema di De Santis) nonché nelle tendenze dominanti che, in quella fase, caratterizzano quello specifico campo espressivo (il neorealismo), ma anche l’immaginario collettivo dell’epoca (la distruzione, la ricostruzione) e gli idola che ne fanno parte (le ultime stagioni del fascismo, la Resistenza, il reducismo, i residui della guerra civile, la fame contadina della terra, le grandi speranze di riscatto, ecc.); il contesto, insomma, per indicare, sia pure con un termine ambiguo, quel complesso viluppo di nodi e problemi sul cui fondo il testo filmico ha le sue funzioni pubbliche (ivi inclusa la sua funzione illocutiva) di metafora del mondo tra le metafore del mondo. È proprio quello che Guglielmo Moneti fa: esplicitamente, come quando motivatamente inserisce Caccia tragica nella cosiddetta “Trilogia della terra” con cui si apre il cinema di Giuseppe Santis o quando, in un capitolo finale, ne compara la dialettica modernità/tradizione con quella del coevo cinema di Rossellini, Visconti, e De Sica-Zavattini; implicitamente come quando, lungo l’intero percorso analitico, legge simboli e allegorie del film come elementi costitutivi d’una grande metafora del dopoguerra italiano ’46-’47, ora epica (e giustamente lo studioso cita il western), ora avventurosa (e qui ovviamente cita le fosche tinte del noir), ora melodrammatica (e qui si prelude a molto De Santis successivo). “Caccia tragica – conclude Moneti, anticipandoci però fin all’inizio la sua conclusione, come dunque la ipotesi esegetica da dimostrare – è un film sul tempo. Il passato e il presente duplicano la realtà come fa il cinema. La mascherano e quindi la sottopongono all’operazione critica”. Diciamo pure che, grazie alle acute argomentazioni analitiche di questo bel saggio, emerge come il lungometraggio d’esordio di De Santis sia anche, per lo meno anche, un film sul cinema.